L’impugnazione delle delibere assembleari

L’impugnazione delle delibere assembleari

Tralasciando volutamente gli aspetti tecnico-processuali (che lasciamo ovviamente agli avvocati) può essere utile “ripassare” alcuni principi generali in materia. Come è noto infatti l’art. 1137 c.c. consente ai condomini di impugnare le delibere assembleari entro un breve termine. Il “rovescio” di tale proposizione è quindi anzitutto che, decorso tale termine e con l’eccezione di cui si dirà, le delibere non sono più impugnabili e quindi ne risultano sanati gli eventuali vizi e difetti. Ciò risponde ad una evidente esigenza di “certezza” dei rapporti condominiali e quindi di progressivo consolidamento delle decisioni dell’assemblea.

È importante notare che si tratta di un termine di “decadenza”, che si rispetta solo proponendo la relativa azione giudiziaria: non basta quindi una semplice lettera raccomandata del condomino e men che mai un colloquio o una telefonata all’amministratore. Occorrerà quindi anzitutto guardarsi dalla più semplice e scorretta manovra dell’amministratore “scafato”, consistente nel tenere aperto una sorta di dibattito o di carteggio sino a quando il termine non sia spirato. Altra annotazione è che solo i condomini hanno la legittimazione ad impugnare,quindi non l’hanno coloro che, pur interessati alla delibera, siano “terzi” rispetto al condominio.

Notiamo ancora che sono legittimati ad impugnare solo i condomini che siano stati assenti all’assemblea (cioè che non vi abbiano partecipato, nemmeno per delega) o che abbiano votato contro la delibera (a questi ultimi, per costante giurisprudenza, sono equiparati anche gli astenuti).

Occorrerà pertanto che chi intende impugnare la delibera abbia cura di fare annotare il suo dissenso nel verbale dell’assemblea (il verbale in effetti andrebbe sempre pubblicamente riletto per intero al termine dell’assemblea, per evitare equivoci, dimenticanze o veri e propri trucchi). Il termine per impugnare è di trenta giorni, che decorrono dall’assemblea per chi vi ha presenziato, anche per delega, ovvero dalla relativa comunicazione del verbale per chi era assente.

Questo termine può essere superato solo nel caso che la censura relativa alla delibera sia di nullità e non di semplice annullabilità: come abbiamo visto infatti l’esigenza di progressivo consolidamento delle delibere anche viziate in modo non particolarmente grave fa sì che la delibera sia in linea di principio valida ed efficace e possa solo eventualmente essere “annullata” dal Giudice. Diverso è il caso in cui il vizio della delibera sia talmente grave da cadere in ipotesi, oggi ritenute residuali, di radicale nullità, cioè di mancanza di validità sin dall’origine.


In questo caso l’azione è proponibile in qualunque tempo e da chiunque vi abbia interesse (quindi, in ipotesi, anche da chi abbia votato a favore della decisione impugnata). Va ovviamente chiarito che il concetto stesso di interesse pone comunque un limite non temporale ma funzionale, non sussistendo nel caso che la delibera viziata abbia comunque esaurito i suoi effetti. Si è detto che la categoria della nullità viene oggi ritenuta residuale dalla prevalente giurisprudenza, nel senso che la si riconosce soltanto per le situazioni di eccesso di potere da parte dell’assemblea (che ha cioè deliberato su di una materia che non le competeva: ad esempio nel caso in cui abbia disposto circa diritti soggettivi di singoli condomini, materia sulla quale solo l’unanimità dei consensi può incidere): tutti gli altri casi ricadono invece nella ipotesi di violazione della legge e del regolamento, quindi con i limiti, temporali e soggettivi, di cui all’art. 1137 c.c.

avv. Davide Civallero – Ircat


Studio Gortan – Partita I.V.A. 00884510322